ISPI - Istituto per gli Studi di Politica Internazionale

04/19/2024 | Press release | Distributed by Public on 04/19/2024 05:29

Hormuz: un equilibrio instabile

Chi segue i mercati l'ha sempre saputo: il conflitto in Medioriente non avrebbe influenzato il prezzo delle materie prime fino a che non si fosse verificata un'escalation delle ostilità con il coinvolgimento dei paesi produttori di greggio. Quel momento è arrivato, e la tensione è massima. L'incertezza è tanta che neanche la speculazione si muove: dopo il rialzo dal primo aprile, quando Israele ha attaccato il consolato iraniano a Damasco, nelle ultime sedute il prezzo del petrolio è rimasto stabile, perfino calando leggermente. Ma l'eventuale controffensiva israeliana potrebbe cambiare lo scenario. L'Iran è infatti il terzo paese al mondo per riserve di petrolio e nono produttore greggio. Nel corso dell'ultimo anno ha estratto circa 4 milioni di barili al giorno, vicino alla propria massima capacità secondo l'Energy Information Administration americana. Un ritmo di produzione che ha subìto un'accelerazione nel corso degli ultimi due anni, quando l'amministrazione Biden ha allentato le sanzioni introdotte da Trump prima per tentare di riportare Teheran al tavolo delle trattative sul nucleare e poi per riequilibrare il mercato del petrolio sconvolto dall'invasione russa dell'Ucraina. Il greggio iraniano è prevalentemente diretto in Cina, anche se non ufficialmente: le navi petroliere passano prima da altri stati del Golfo e da paesi come la Malaysia per far perdere le tracce sulla propria origine.

Proprio ciò che è avvenuto dopo il 24 febbraio 2022 ci può insegnare qualcosa dell'impatto che avrebbe colpire la capacità di export petrolifero iraniana: dopo l'attacco di Mosca numerose compagnie acquirenti di petrolio russo - circa il doppio del greggio estratto annualmente dall'Iran - hanno iniziato ad "auto-sanzionarsi" evitando di comprarlo per timore di future ritorsioni occidentali. Questo ha causato una carenza di alcuni mesi sul mercato, che ha portato il prezzo oltre i 100 dollari al barile. Se Israele dovesse attaccare le infrastrutture petrolifere iraniane, o se Teheran decidesse per ritorsione un embargo, l'impatto sui prezzi potrebbe essere notevole.

A preoccupare maggiormente è lo stretto di Hormuz, il principale collo di bottiglia del commercio di idrocarburi: 54 chilometri tra le coste dell'Oman e quelle dello stesso Iran, al centro da sempre di tensioni tra gli attori regionali e internazionali. Da lìpassa un terzo del petrolio e un quinto del gas - ovviamente liquefatto - a livello globale. Se dovesse essere chiuso, come più volte minacciato dall'Iran, i prezzi internazionali schizzerebbero su livelli simili a quelli di marzo 2022, secondo diversi analisti. Oggi uno scenario che rimane scarsamente probabile: troppi gli interessi in gioco, su entrambi i fronti. Il maggior esportatore che vedrebbe bloccati i propri flussi sarebbe l'Arabia Saudita, il più importante acquirente danneggiato la Cina. E lo stesso Iran vedrebbe crollare le proprie entrate fiscali del 70 per cento. L'equilibrio per ora si regge su questo.