ISPI - Istituto per gli Studi di Politica Internazionale

04/19/2024 | Press release | Distributed by Public on 04/19/2024 05:29

Cantieri navali: sfida a Oriente

L'anno scorso l'industria della cantieristica ha oltrepassato una soglia immaginaria che, benché puramente simbolica, restituisce un quadro molto esplicito di come si sta evolvendo il settore. Secondo quanto rilevato da Clarksons Research, nel 2023 la Cina da sola avrebbe prodotto più della metà delle navi commerciali costruite a livello mondiale stando ai dati sulle tonnellate di stazza lorda compensata (TSLC) che sono il parametro internazionale per la misurazione dell'attività cantieristica.

Dopo la Cina a seguire vengono la Corea del Sud con il 26% e il Giappone con il 14% della produzione mondiale, mentre l'Europa si fermerebbe al 5% e la quota degli Stati Uniti sarebbe vicina allo zero. La crescita della quota cinese al di sopra della soglia del 50% della produzione mondiale è un evento simbolico siccome già negli anni precedenti i cantieri cinesi distaccavano di molto tutti quelli degli altri Paesi. Il sorpasso sulla Corea del Sud è avvenuto nel 2017 e da allora il divario tra i due Paesi è continuato ad aumentare.

Il peso dell'Asia orientale nel settore della cantieristica non è nuovo ma fino a due decenni fa non era ancora così preponderante come invece lo è oggi. Ancora nel 2002, per esempio, l'Europa contava per il 24% della produzione navale e la Cina invece contava solo l'8%. Tra i cantieri navali che oggi in Europa hanno mantenuto una certa presenza a livello internazionale ci sono quelli di Fincantieri, azienda leader mondiale nel settore della crocieristica. Tuttavia, per quanto ad alto valore aggiunto, le navi da crociera rappresentano solo una piccola frazione della cantieristica mondiale che invece vede gran parte delle proprie attività concentrate nella produzione di navi container, portarinfuse, navi cisterne o metaniere.

La produzione cantieristica è infatti comprensibilmente legata a doppio filo con il trasporto marittimo, che ad oggi rimane il principale metodo di scambio utilizzato per il commercio internazionale. A questo aspetto se ne lega però un secondo di carattere geostrategico, come evidenziato più volte dal segretario alla Marina degli Stati Uniti Carlos Del Toro: non esiste una grande potenza navale che non sia stata anche una potenza commerciale marittima, sia in termini di capacità di trasporto che di produzione cantieristica.

Su quest'ultima in particolare si è storicamente costruita la capacità militare di proiezione globale da parte delle maggiori potenze, che si sono affidate al potere navale per estendere la propria influenza a livello globale. La marina militare degli Stati Uniti, tutt'ora considerata la più potente al mondo, conta oggi poco meno di 300 navi e sottomarini mentre quella cinese - dopo anni di rapida modernizzazione - ne possiede circa 370 e dovrebbe arrivare a toccare la soglia di 440 entro la fine del decennio. Nonostante i vertici della difesa a Washington intendano riportare la flotta sulle 380 unità, la de-industrializzazione subita dai cantieri navali degli Stati Uniti mette in dubbio la fattibilità di questo obiettivo.

Cantieri: l'ascesa cinese e il declino USA

L'affermazione della Cina nel settore cantieristico è stato un processo ventennale, cominciato nel 2001 col suo accesso nell'Organizzazione Mondiale del Commercio (WTO). Attraverso i grandi gruppi industriali controllati dalle autorità statali, Pechino ha mantenuto una forte presenza in un settore identificato come strategico per il proprio sviluppo economico e marittimo. I cantieri navali cinesi, nei quali le società straniere non possono detenere più del 49% delle azioni, hanno dunque beneficiato di generose politiche industriali, finanziarie, fiscali e regolatorie che ne hanno favorito la crescita. A partire dal 2015 poi il settore è stato designato come una priorità strategica per lo sviluppo economico del Paese ed inserito nel piano strategico di avanzamento industriale noto come Made in China 2025.

L'anno scorso i cantieri cinesi hanno potuto contare su un forte interesse internazionale, raccogliendo circa il 60% dei nuovi ordini a livello mondiale in termini di TSLC. La Cina, infatti, si è imposta nel mercato delle portarinfuse col 62% della produzione globale, in quello delle navi containter col 61%, e in quello delle navi cisterna col 41%. A trainare la domanda ci sono le compagnie di navigazione straniere come la francese CMA CGM o la taiwanese Evergreen, attratte dai bassi costi di produzione e dai tempi di consegna più veloci che altrove, ma anche le compagnie cinesi impegnate nel trasporto marittimo. Lo scorso agosto per la prima volta le dimensioni della flotta commerciale posseduta da società cinesi ha superato quella della Grecia in termini di tonnellate di stazza lorda, anche se secondo altri parametri gli armatori greci rimangono al primo posto.

Parallelamente, la cantieristica statunitense ha subìto un drammatico declino a partire dagli anni '80 quando, con l'avvento della Reaganomics, gran parte dei sussidi statali all'industria furono tagliati in ossequio alla filosofia neoliberista allora in voga, alla luce della quale le navi sono un bene fungibile come altri i cui cantieri di produzione ottimali sarebbero stati determinati direttamente attraverso il libero mercato. Le politiche di Reagan si basavano sull'assunto che l'industria cantieristica interna avrebbe potuto mantenersi grazie alle commesse militari della Guerra fredda e alle prescrizioni della legge Jones, la quale prevede tutt'oggi che il trasporto marittimo tra porti statunitensi avvenga esclusivamente su imbarcazioni prodotte negli Stati Uniti, ma in realtà infersero un colpo durissimo all'industria che da allora non si è più ripresa.

Oggi gli unici cantieri negli Stati Uniti caratterizzati da una certa attività sono quelli che lavorano per la difesa. La marina può ancora fare affidamento su sette linee di produzione in mano a società private, delle quali però una è l'australiana Austal e un'altra è l'italiana Fincantieri, mentre i restanti cantieri hanno chiuso. Anche quelli di proprietà statale sono stati dismessi e dei tredici che una volta erano in attività oggi solo quattro rimangono aperti.

Questa difficoltà sistemica è ben visibile nei ritardi produttivi che scontano le navi commissionate dal Dipartimento della Difesa. Ad esempio, se da un lato la marina statunitense negli ultimi anni ha mantenuto negli ordini un ritmo di un sottomarino della classe Virginia ogni sei mesi, dall'altro però i cantieri hanno fatto fatica a mantenere il passo e la media delle consegne si aggira in media attorno a un sottomarino ogni nove mesi. Un discorso simile vale per i cacciatorpediniere lanciamissili della classe Arleigh Burke.

Giappone e Corea del Sud: alleati USA nell'Indopacifico

L'asfissia da mancanza di commesse commerciali ha avuto ricadute concrete sulle capacità industriali a sostegno della difesa statunitense, ma a sostegno degli Stati Uniti potrebbero presto arrivare due alleati storici. Corea del Sud e Giappone infatti non sono solo potenze della cantieristica seconde soltanto alla Cina, ma sono anche due attori chiave nell'Indo-Pacifico con cui Washington sta stringendo sempre di più i propri rapporti strategici come visto durante la recente visita del premier giapponese Kishida o quella realizzata dal presidente sudcoreano Yoon l'anno scorso.

Benché la Cina dal punto di vista quantitativo sia prima al mondo per produzione totale, le navi tecnologicamente più avanzate non sono prodotte nei suoi cantieri. Nei segmenti high-tech, come quelli delle navi metaniere o a ridotto impatto ambientale, i due alleati degli Stati Uniti hanno un largo vantaggio sulla concorrenza cinese. Per esempio, nella produzione di navi per il trasporto di LNG, i cantieri sudcoreani possiedono l'83% del mercato globale e le controparti cinesi non padroneggiano ancora le tecnologie necessarie a consentire il trasporto di gas liquefatto a temperature estremamente basse. I cantieri giapponesi invece stanno investendo molto sulla nascente industria legata alla decarbonizzazione dei sistemi propulsori, puntando su motori alimentati a idrogeno e biocombustibili che consentiranno di raggiungere gli obiettivi di riduzione dei gas a effetto serra stabiliti dall'Organizzazione Marittima Internazionale.

Come volano del partenariato cantieristico coi due alleati asiatici, negli ultimi mesi le autorità statunitensi si stanno impegnando per rivedere le regole che impediscono alle navi della marina di sottoporsi a interventi estensivi di manutenzione all'estero. I cantieri privati in Giappone e Corea del Sud dovrebbero essere i principali beneficiari di questo provvedimento, venendo quindi abilitati a compiere lavori di riparazione e ristrutturazione in loco delle navi statunitensi oltre al limite di novanta giorni oggi imposto dalla legge statunitense. Per i due Paesi asiatici ciò significherebbe nuovi contratti per i propri cantieri mentre per Washington significherebbe una miglior prontezza operativa nell'Indo-Pacifico, evitando di dover far rientrare per la manutenzione le navi dispiegate nelle basi militari della regione. D'altro lato però gli Stati Uniti starebbero sollecitando le società sudcoreane e giapponesi a investire nel Paese per riaprire i cantieri navali chiusi negli ultimi decenni, ponendo questa sinergia nell'ottica di promuovere una maggior integrazione tra le rispettive industrie della difesa.

Scenari futuri: Washington nell'incertezza politica

La Cina è cosciente di scontare un ritardo importante dal punto di vista della tecnologia marina. Durante la sessione annuale dell'Assemblea Nazionale del Popolo tenutasi a Pechino lo scorso marzo, il capo ingegnere della China Shipbuilding Industry Corporation ha sottolineato la necessità di migliorare le capacità di ricerca e sviluppo per permettere alla Cina di scalare la catena del valore dell'industria cantieristica.

D'altra parte, i tentativi statunitensi di ricostruire il proprio settore navale potrebbero metterci anni per portare dei risultati. La riapertura di vecchi cantieri è di per sé un'attività complessa, non solo per le ristrettezze della manodopera qualificata adatta a svolgere questo lavoro - basti pensare che lo US Bureau of Labor Statistics non prevede un significativo aumento del numero di ingegneri navali negli Stati Uniti prima del 2032 - ma anche perché le società sudcoreane o giapponesi dovrebbero valutare attentamente la fattibilità di investimenti onerosi negli Stati Uniti, da realizzare peraltro in un contesto in cui il necessario supporto legislativo del Congresso potrebbe essere messo a repentaglio dalla polarizzazione politica tra democratici e repubblicani.

Tuttavia, per l'amministrazione Biden rimane ancora aperta la strada delle misure coercitive/restrittive da imporre direttamente contro la Cina per colpirne la produzione cantieristica. Una strada che, mercoledì 17 aprile, il presidente ha dimostrato di voler imboccare durante la visita alla sede della United Steelworkers (USW) a Pittsburgh, uno dei sindacati statunitensi più importanti nell'industria dell'acciaio. A metà marzo, assieme ad altri sindacati del settore, USW aveva infatti lanciato una petizione affinché il governo adottasse misure che proteggessero i lavoratori statunitensi dalla competizione sleale dei cantieri navali cinesi e la risposta non si è fatta attendere, arrivando addirittura con qualche settimana d'anticipo. Joe Biden ha infatti annunciato di voler triplicare i dazi sull'import cinese di acciaio e alluminio, portandoli eventualmente fino al 25%, nonché di voler aprire un'indagine sulle pratiche di mercato sleali dei cantieri navali cinesi.

Per gli Stati Uniti si tratta di aprire un nuovo fronte nella competizione tecnologico-industriale con la Cina, che però contrasta con i numerosi sforzi intrapresi nell'ultimo anno per distendere i rapporti con Pechino. La decisione, infatti, deve essere analizzata nel contesto politico interno degli Stati Uniti, dove a novembre l'attuale presidente democratico cercherà la rielezione contro il candidato repubblicano Donald Trump. In tale ottica il sostegno dei sindacati sarà cruciale, in particolare nel voto di quegli stati in bilico che determineranno chi verrà eletto, e l'annuncio di questa settimana sembra essere concepito proprio come parte di una strategia elettorale mirata a conquistarne il sostegno. D'altra parte, lo stop all'acquisizione giapponese di US Steel nei mesi scorsi già forniva un potente indizio in questo senso ed è probabile che le misure annunciate questa settimana siano solo l'inizio di una lunga campagna elettorale le cui sorti si giocheranno anche sulle posizioni riguardo la Cina.