ISPI - Istituto per gli Studi di Politica Internazionale

04/19/2024 | Press release | Distributed by Public on 04/19/2024 05:29

Semiconduttori: la scommessa di Tokyo

C'era una volta il mitico MITI, il ministero giapponese dell'industria e del commercio internazionale. Nell'immediato dopoguerra il MITI organizzò la reindustrializzazione del Paese che portò al miracolo economico degli anni '50 e '60. Attraverso l'utilizzo di una vasta panoplia di strumenti e meccanismi di coordinamento, favorì l'ascesa dei keiretsu, conglomerati di imprese con partecipazioni incrociate organizzati attorno a una grande banca che forniva loro i servizi finanziari di cui necessitavano. Il MITI introdusse altresì una serie di barriere formali e informali che impedivano o limitavano l'acquisizione di imprese giapponesi da parte di imprese straniere in settori considerati strategici. Negli anni '70 e '80, perseguendo una politica industriale volontarista, il MITI non esitò a scegliere i vincitori (pick the winner) in alcuni settori industriali e, attraverso linee guida amministrative, spinse i keiretsu a specializzarsi anche in produzioni ad alta tecnologia (per esempio, l'elettronica e i semiconduttori). Unitamente all'introduzione di metodi produttivi innovativi da parte del management delle imprese nipponiche come il toyotismo e il just in time, questi sviluppi portarono l'industria giapponese ad affermarsi a livello mondiale. Il successo nipponico creò tensioni commerciali che portarono a una serie di accordi per limitare le esportazioni giapponesi verso gli Stati Uniti e l'Europa in settori quali le automobili e i semiconduttori.

La lunga stagnazione del Giappone

Se gli anni '80 del secolo scorso rappresentano l'apogeo dell'economia giapponese, essi segnano anche l'inizio di una lunga stagnazione. Alla fine di quel decennio, lo scoppio della bolla finanziaria produsse un improvviso rallentamento dell'economia. Inizialmente si pensò a uno shock temporaneo, che sarebbe stato presto riassorbito. Tuttavia, la stagnazione si protrasse, segnalando la presenza di problemi strutturali più profondi. Anche sul fronte della politica industriale alcune delle scelte compiute cominciarono a rivelarsi problematiche. Un chiaro esempio di fallimento della politica industriale giapponese di quel periodo riguarda il settore dei semiconduttori. Negli anni '80 il Giappone era giunto a dominare questo settore: circa il 50% della produzione mondiale era giapponese e tra le dieci più grandi imprese nel settore sei erano nipponiche. Tuttavia, la creazione di capacità produttiva venne favorita a scapito della profittabilità dell'investimento. Con la stagnazione economica, l'apprezzamento dello yen, le restrizioni all'accesso del mercato americano, condizioni finanziarie più restrittive, decisioni di investimento sbagliate e difficoltà nell'abbandonare l'integrazione verticale per specializzarsi nei segmenti tecnologicamente più avanzati, negli anni '90 molte imprese giapponesi produttrici di semiconduttori si trovarono in difficoltà e dovettero fondersi o essere assorbite da altre imprese. Ma anche questo non bastò a ridare profittabilità al settore e si dovette procedere a una drastica riduzione degli investimenti e della produzione, cosicché il Giappone non solo ha visto la sua quota nel mercato mondiale crollare al 10%, ma si è anche fatto distanziare tecnologicamente (attualmente le imprese giapponesi riescono a produrre microchip della dimensione di 40 nanometri (nm), mentre TSMC, Samsung e Intel producono già microchip di 3nm).

La lunga stagnazione dell'economia giapponese portò a un riorientamento profondo della politica economica giapponese. Alla fine degli anni '90 divenne chiaro che il modello di politica industriale incarnato dal MITI era ormai inadeguato per far fronte alle nuove sfide. Nel 2001 il MITI cessò ufficialmente di esistere e venne sostituito dal METI (il ministero dell'economia e del commercio estero). Il cambiamento non fu solo di facciata: nei vent'anni che seguirono il nuovo ministero divenne qualcosa di molto simile ai ministeri europei con simili funzioni, vale a dire uno strumento per sostenere l'industria e le esportazioni nipponiche senza però interferire fortemente nei meccanismi di mercato che determinano l'allocazione delle risorse.

La nuova politica industriale del Giappone

In anni recenti l'ascesa della Cina, le crescenti tensioni geopolitiche e geoeconomiche, i progressi nel campo dell'intelligenza artificiale nonché la transizione climatica hanno riportato in auge in Giappone politiche industriali volontariste, che però non rappresentano un ritorno alle politiche industriali del secondo dopoguerra. Infatti, il principale obiettivo odierno non è più quello di favorire l'espansione delle industrie giapponesi a livello mondiale, bensì di favorire la crescita di settori vitali per la sicurezza economica nazionale in cui il Giappone ha perso terreno. Diversamente dal passato, gli investimenti diretti dall'estero, se effettuati da Paesi amici o alleati, sono ora benvenuti: l'importante è che la produzione avvenga sul territorio nazionale. Sul più lungo termine, si assiste tuttavia anche a un ritorno, certo in misura limitata, di politiche pick the winner volte a favorire produttori nazionali da affiancare a quelli stranieri.

Per meglio illustrare il revival della politica industriale in Giappone considereremo gli interventi effettuati nel settore dei semiconduttori, che è in un certo qual modo paradigmatico perché è proprio questo settore che la classe politica e la burocrazia giapponesi hanno considerato sinonimo di insuccesso delle politiche industriali volontariste. Cionondimeno, di fronte alle gravi perturbazioni delle catene dell'offerta legate alla scarsità di semiconduttori durante la pandemia, che provocarono la chiusura temporanea di diversi comparti produttivi, e al rischio di una crisi nello stretto di Taiwan che potrebbe privare il Giappone dell'accesso ai semiconduttori più avanzati (Taiwan produce ed esporta più del 90% di essi), le autorità nipponiche hanno deciso di mettere da parte le vecchie remore e intervenire direttamente per favorire la ricostruzione della filiera dei semiconduttori sul territorio giapponese. Poiché il ritardo tecnologico accumulato dal Giappone nel settore nell'ultimo quarto di secolo era incolmabile in tempi brevi, la politica industriale giapponese è stata messa anzitutto al servizio di imprese straniere: TSMC, Samsung e Micron hanno tutte accettato, dietro lauti incentivi, di aprire stabilimenti per la produzione di semiconduttori avanzati sul territorio nipponico.

Il contributo del governo giapponese non si è limitato ai soli finanziamenti. Nel caso di TSMC, che si è impegnata ad aprire due grandi stabilimenti e sta considerando la possibilità di aggiungerne un terzo, il METI ha favorito la costituzione di una joint venture (la Japan Advanced Semiconductor Manufacturing Inc.) tra TSMC e i suoi maggiori clienti: Sony, Toyota e Denso. La joint venture, in cui TSMC è il socio di maggioranza, gestirà gli impianti costruiti in Giappone. Inoltre, per assicurare che il completamento del primo stabilimento avvenisse nei tempi previsti, le autorità giapponesi hanno mobilitato in tutto il Paese imprese di costruzioni specializzate che hanno lavorato senza interruzione per rispettare i tempi prescritti. Sempre il METI, assieme con le autorità locali ha organizzato sull'isola di Kyushu la costruzione delle infrastrutture per accogliere adeguatamente le migliaia di lavoratori necessari al completamento del sito. Grazie a queste misure, la costruzione è avanzata senza intoppi e lo stabilimento di Kumamoto è stato inaugurato lo scorso 24 febbraio alla presenza dei CEO di TSMC, Sony e Toyota e del ministro del METI. Questo è un risultato non da poco, se si pensa invece che lo stabilimento che TSMC doveva aprire in Arizona più o meno nello stesso periodo di quello di Kumamoto è stato ritardato di almeno un anno a causa di mancanza di personale qualificato, una penuria di imprese e lavoratori nel settore della costruzione (che ha anche aumentato fortemente i costi dell'investimento) e di ritardi nell'installazione dei macchinari necessari per la produzione, con ripercussioni significative anche sull'indotto. Questo sembra mostrare che il savoir faire acquisito nel passato nel mobilitare e organizzare in modo efficace e cooperativo risorse umane, imprenditoriali e finanziarie per realizzare obiettivi seguendo una logica non esclusivamente di mercato non è andato completamente perso in Giappone, che a questo riguardo è capace di ottenere risultati migliori degli Stati Uniti, dove le politiche industriali hanno giocato un ruolo chiave solo nel corso delle due guerre mondiali e nella competizione spaziale.

Scommessa miliardaria sui semiconduttori

Il METI non ha comunque completamente rinunciato a perseguire anche una politica pick the winner, con lo scopo di far sì che la rinascita dell'industria dei semiconduttori in Giappone non resti appannaggio quasi esclusivo di imprese straniere. A tal fine sta fornendo più di 2 miliardi di dollari di aiuti di stato a una startup (Rapidus) creata con i capitali di otto imprese giapponesi, tra cui NEC, NTT, Sony e Toyota e che si è posta come obiettivo di cominciare la produzione di massa di microchip della dimensione di 2 nm nel 2027 (TSMC, Samsung e Intel dovrebbero riuscirvi già entro il 2025). Per un'impresa giapponese produrre microchip della dimensione di 2 nm entrando in competizione con i giganti del settore è tutt'altro che evidente. Molti analisti considerano che le possibilità di successo di Rapidus siano molto basse, anche perché per produrre semiconduttori molto avanzati c'è bisogno di una manodopera estremamente qualificata, di quadri con una lunga esperienza nel settore e con una profonda conoscenza dei meccanismi di produzione. Per superare questi svantaggi, Rapidus, con l'aiuto del METI, ha stabilito rapporti di cooperazione con imprese americane (IBM), istituti di ricerca europei e ASML, il produttore europeo leader nel campo delle macchine utensili che producono semiconduttoriavanzati. L'obiettivo è di trovare un "passaggio a nord-ovest" che consenta a Rapidus di saltare il processo evolutivo seguito dalle grandi aziende leader, posizionandosi fin dall'inizio sulla frontiera tecnologica. Tuttavia, posizionarsi sulla frontiera tecnologica non è la sola sfida: Rapidus avrà anche bisogno di identificare pratiche organizzative e soluzioni strategiche molto innovative, in grado di rendere l'impresa profittevole e capace di acquisire un vantaggio competitivo, cosa tutt'altro che evidente. Rapidus è dunque una scommessa rischiosa e resta da vedere se sarà coronata da successo o se invece si sarà trattato di "a bridge too far", anche per un Paese con una lunga tradizione nel campo della politica industriale.

In conclusione, la rivitalizzazione della politica industriale in Giappone è anzitutto il frutto di considerazioni di sicurezza economica e militare. Per questa ragione, come mostrato dall'esempio dei semiconduttori, l'approccio seguito è dunque inevitabilmente diverso da quello del periodo del boom economico. Nel breve periodo, la priorità per le autorità nipponiche è colmare il divario con i Paesi alla frontiera tecnologica in alcuni settori strategici indipendentemente dalla nazionalità dell'impresa, mantenendo la Cina a debita distanza. Il passo successivo, più reminiscente di politiche industriali del passato, sembra essere quello di creare le condizioni per un ritorno delle imprese nipponiche alla punta di questi settori, anche attraverso politiche di pick the winner. Mentre vi sono indicazioni che fin qui il primo passo è stato coronato da un certo successo, la fattibilità del secondo a questo stadio resta incerta.