04/29/2024 | News release | Distributed by Public on 04/29/2024 09:07
Da un incontro quasi casuale, a una recensione critica, per poi arrivare sul finire della sua vita e soprattutto dopo la morte a un fiorire di studi e di approfondimenti sul suo metodo pedagogico. Presenta così il rapporto tra l'Università Cattolica e don Milani, il professor Domenico Simeone, preside della Facoltà di Scienze della formazione, tra i promotori del convegno omonimo che si è svolto nella sede di Brescia il 18 aprile.
Quali sono stati i primi contatti tra il Priore di Barbiana e la nostra università?
«Non ci sono stati dei rapporti diretti, ma quando uscì Esperienze pastorali, nel 1958, don Milani aveva scoperto che degli amici di famiglia, e in particolare la famiglia di Francesca Ichino Pellizzi, lessero il libro, furono entusiasti e ne comprarono un numero consistente di copie e ne regalarono agli amici».
Con quali conseguenze?
«L'editore della Libreria Editrice Fiorentina segnalò il fatto a don Milani, che scrisse a Francesca Ichino Pellizzi per ringraziarla e per chiederle se avesse modo di contattare Vita e Pensiero perché pubblicasse qualcosa sul libro: una recensione, un commento, sia positivo sia negativo. Lei si rivolse alla sua grande amica, la professoressa Sofia Vanni Rovighi, ma non risulta che su Vita e Pensiero sia stato pubblicato nulla».
Cosa successe quando la Chiesa bloccò "Esperienze pastorali"?
«Quando alla fine del 1958 uscì la stroncatura su Civiltà Cattolica di padre Perego e sull'Osservatore Romano la notizia che il Sant'Uffizio avesse chiesto di ritirare Esperienze pastorali, non perché l'avesse trovato contrario alla Dottrina in qualche aspetto, ma perché lo giudicava inopportuno se fosse stato letto da persone non avvedute. Questo rilancia il dibattito sul libro».
Che cos'era il caso Milani-Olgiati?
«A gennaio uscì una recensione molto critica di monsignor Olgiati, pubblicata sulla Rivista del clero italiano. Ma mentre don Milani sembrava meno interessato alla stroncatura di Civiltà Cattolica, rimase molto male del commento negativo di Olgiati, non so se perché il co-fondatore della Cattolica si era occupato di pastorale giovanile e dei preti che avrebbero lavorato con in giovani. Di fatto don Milani scriverà a monsignor Olgiati una lettera molto lunga, che riprende punto per punto le sue critiche, senza peli sulla lingua».
Ma il rapporto con l'Ateneo continuò.
«Quando nell'aprile del 1959 don Lorenzo Milani organizzerà una gita a Milano, interessando i suoi amici perché gli dessero una mano per ospitare i sei ragazzi di Barbiana che viaggiavano con lui, scrisse più volte a Francesca Ichino Pellizzi, che decise di ospitarli. Fu in quell'occasione che Sofia Vanni Rovighi ebbe modo di conoscere don Milani e l'esperienza di Barbiana».
Come si pose l'Università sul metodo pedagogico di Barbiana?
«All'uscita di Esperienze pastorali don Milani non era ancora molto noto. Negli anni successivi l'Ateneo matura un giudizio più articolato rispetto alla sua opera e ai suoi scritti. Ci sarà nel 1965 la questione legata alla lettera ai cappellani militari, "L'obbedienza non è più una virtù", ma la Cattolica non intervenne. Milani interloquì con i gesuiti di Aggiornamenti sociali. Con l'uscita di "Lettera a una professoressa", il professor Aldo Agazzi aveva scritto sulle riviste dell'Editrice La Scuola, apprezzando la sua opera».
È dopo la morte di Milani che cresce l'interesse della Cattolica?
«Dopo il 1967, a parte la parentesi del Sessantotto, aumenta progressivamente l'interesse dell'importanza e della consapevolezza dell'esperienza pedagogica di Barbiana, tant'è che cominciano a essere dedicate delle tesi a don Lorenzo Milani e anche qualche articolo che compare sulle riviste della Cattolica. L'interesse è alimentato soprattutto dai docenti della Facoltà di Magistero».
Fino all'organizzazione di un grande evento.
«Nel 1983 verrà organizzato uno dei più importanti convegni su don Milani. Il rettore era ancora Lazzati, intervenne anche il cardinal Martini con una sua relazione e poi c'erano personaggi del calibro di Pietro Scoppola, Benedetto Calati, Luciano Pazzaglia, Antonio Acerbi, e gli atti furono raccolti in un volume di Vita e Pensiero. Un'iniziativa che metteva in luce con un'analisi critica scientifica, quindi non apologetica, la complessità del personaggio don Milani ma anche l'articolazione della sua attività e del suo pensiero».
Ma l'interesse per don Milani non si è fermato lì.
«Dopo di allora sono progressivamente cresciuti gli eventi che segnano un interesse nei confronti dell'esperienza del Priore: sono aumentati i seminari e i convegni, sono aumentate le tesi e molti docenti della Cattolica hanno scritto dei contributi».
A chiusura del centenario dalla nascita, qual è l'attualità della figura di don Milani e come la sua lezione ha qualcosa da dire anche nelle nostre aule universitarie?
«È impossibile e inutile cercare di riproporre l'esperienza di Barbiana in altri contesti. Piuttosto Barbiana è un messaggio ancora valido per la scuola di oggi e può essere da stimolo anche per la ricerca e per la formazione anche in ambito accademico. Il messaggio è l'invito a compromettersi nei sentieri della storia, di un'educazione che cerchi di ridurre il divario e le disuguaglianze e cerchi di promuovere le potenzialità di tutte le persone, in modo particolare di chi rischia di rimanere ai margini di questa società. La scuola non può essere come un ospedale che cura i sani e respinge i malati».
Qual è il messaggio che ci lascia?
«Ci insegna quanto sia importante una pedagogia trasformativa, che metta in campo le migliori risorse per migliorare il mondo in cui viviamo, per renderlo più giusto, più equo, più inclusivo. E per farlo deve dare la parola a chi non ce l'ha. Oggi forse non sono tanto i montanari del Mugello, ma sono i ragazzi che vivono condizioni di povertà educative, sono le persone che vengono da altri Paesi e non conoscono la nostra lingua, sono tutti quei bambini e quelle bambine per cui l'educazione può fare la differenza per renderli cittadini sovrani».