ISPI - Istituto per gli Studi di Politica Internazionale

03/25/2024 | Press release | Distributed by Public on 03/25/2024 08:57

Joe il temporeggiatore

C'è un solo leader che potrebbe fermare il quotidiano massacro di Gaza. Un solo uomo che potrebbe avviare quel processo di risoluzione del conflitto israelo-palestinese, che lui stesso ha proclamato al mondo: il presidente degli Stati Uniti.

Ma Joe Biden tentenna. Permette a Bibi Netanyahu di farsi gioco di lui. Gli consente di compromettere credibilità e interessi americani nella regione e nel mondo. Limitandosi a una tenue opposizione verbale, non fa nulla di concreto per impedire che Netanyahu rovini il progetto di uno stato palestinese e pianifichi l'assalto a Rafah: cioè l'attacco del più potente e avanzato esercito della regione - e fra i primi al mondo - a una tendopoli di un milione e 300mila sfollati denutriti.

L'opinione pubblica globale sta isolando sempre più Israele. Se ha dimenticato l'orrendo massacro compiuto da Hamas, il 7 di ottobre, è perché da troppi mesi Israele sta commettendo qualcosa di non meno tremendo a Gaza. Chuck Schumer, leader della maggioranza democratica in Senato ed ebreo newyorkese, invita gli israeliani a votare e cacciare Netanyahu con il suo governo estremista. Biden invece borbotta: pianifica aiuti umanitari per i palestinesi e armi per gli israeliani a causa delle quali i palestinesi necessitano di aiuto umanitario. Perché?

Sono due le ragioni. Una è personale, l'altra elettorale. "Nessun altro presidente ha ripetutamente definito se stesso come sionista", scrive Aaron Miller, negoziatore americano del processo di pace degli anni '90. "Nessun altro occupante della Casa Bianca ha affermato che se Israele non esistesse, bisognerebbe inventarlo". Da Golda Meir in poi, Joe Biden ha incontrato tutti i premier. Sin dall'inizio della carriera da senatore, nel 1973, si è innamorato d'Israele e della sua eroica narrativa. Col tempo molti hanno perso quell'incanto, lui no. Quando i rapporti fra Barack Obama e Netanyahu erano pessimi, l'allora vicepresidente Biden aveva continuato a tentare un'impossibile riconciliazione: nonostante Bibi avesse annunciato l'allargamento di alcune colonie ebraiche poco dopo una sua visita in Israele. La seconda ragione è elettorale. Alle primarie democratiche del Michigan, uno stato fondamentale per una vittoria presidenziale, gli elettori di origine araba si erano astenuti. Ma per numero, risorse e presenza in molti stati importanti, non possono competere con la comunità ebraica.

Secondo l'ultimo sondaggio del Pew Research Center di Washington, il 62% è favorevole a Biden e il 21 a Donald Trump. Fra le minoranze solo quella afro-americana protestante gli è più favorevole. Il voto ebraico è storicamente democratico perché tendenzialmente liberale su diritti civili, aborto, questioni razziali, minoranze. Ma verso Israele c'è un legame profondo, chiunque lo governi: è quello che Biden condivide e non vuole mettere in discussione.

Il crollo della popolarità fra i musulmani americani e soprattutto i giovani nelle università, è grave. Ma qualsiasi cosa faccia Biden, il loro voto non andrà mai a Donald Trump. Quello ebraico potrebbe invece cambiare opinione se Israele venisse isolato. "Gli ebrei che votano democratico odiano la loro religione e Israele: dovrebbero vergognarsi", proclama Trump, con il suo tradizionale equilibrio verbale.

Quasi ogni giorno Joe Biden constata pubblicamente la realtà: "C'è un sacco di gente innocente che è in difficoltà e sta morendo. Deve finire". Ma il tempo passa e non fa quello che altri presidenti hanno fatto per contenere le pericolose ambizioni israeliane: Dwight Eisenhower nel 1956 nel Sinai, Ronald Reagan nell'82 in Libano, George Bush (padre) nel '92 nei territori occupati. Solo un voto diverso dal veto al Consiglio di sicurezza Onu o la sospensione dell'aiuto militare a Netanyahu possono fare la differenza e fermare il sempre più intollerabile disastro umanitario di Gaza.